giovedì 9 ottobre 2008

La biblioteca di Babele

Come tutti gli uomini di Babilonia, sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l'onnipotenza, l'obbrobrio, le carceri. Guardino: la mia mano destra è monca dell'indice. Guardino: per questo strappo del mantello si vede sulla mia carne un tatuaggio vermiglio: è il secondo simbolo, Beth. Le notti luna piena, questa lettera mi conferisce potere sugli uomini il cui marchio è Ghimel, ma mi subordina a quelli di Aleph, che nelle notti senza luna debbono obbedienza a quelli di Ghimel. Sul crepuscolo del mattino, in un sotterraneo, ho sgozzato tori sacri dinanzi alla pietra nera. Per tutto un anno della luna, sono stato dichiarato invisibile: gridavo e non mi rispondevano rubavo il pane e non mi decapitavano. Ho conosciuto ciò che ignorano i greci: l'incertezza. In una camera bronzo, davanti al laccio silenzioso dello strangolatore ho avuto speranza; nel fiume dei piaceri, paura. Eraclide Pontico riferisce con ammirazione che Pitagora ricordava d'essere stato Pirro, e prima di lui Euforbo e ancor prima un qualche altro mortale; per ricordare vicissitudini analoghe, io non ho bisogno di ricorrere alla morte, nè all'impostura.

Debbo questa varietà quasi atroce a un'istituzione che altre repubbliche ignorano, o che opera in esse modo imperfetto e segreto: la lotteria. Non ho indagato la sua storia; so che i maghi che ne ragionano non sono giunti a un accordo; so dei suoi scopi poderosi ciò che può sapere della luna l'uomo non versato in astrologia. Sono di un paese vertiginoso dove la lotteria è parte principale della realtà; fino ad oggi, pensai così poco ad essa come alla condotta degli dei indecifrabili o del mio cuore. Ora, lontano da Babilonia e dai costumi che amo, penso con qualche stupore alla lotteria, e alle congetture blasfeme che mormorano nel crepuscolo gli uomini velati.

Mio padre raccontava che anticamente - anni addietro? secoli? - la lotteria fu a Babilonia un gioco di carattere plebeo. Diceva (se sia vero non so) che i barbieri distribuivano, in cambio di monete di rame, rettangoli d'osso o di pergamena ornati di simboli. Il sorteggio si faceva di giorno: i favoriti ricevevano, senz'altra convalida del caso, delle monete d'argento coniate. Come vedono, il procedimento era elementare.

Naturalmente, queste lotterie fallirono. La loro virtù morale era nulla. Non si rivolgevano a tutte le facoltà dell'uomo: solo alla sua speranza. Aumentando l'indifferenza del pubblico, gli affaristi che avevano fondato queste lotterie venali cominciarono a perdere il denaro. Qualcuno tentò una riforma: l'interpolazione di poche sorti avverse tra il numero di quelle favorevoli. In virtù di questa riforma, gli acquirenti di rettangoli numerati si mettevano al duplice azzardo di riscuotere un premio e di pagare una multa a volte ingente. Questo tenue rischio (per ogni trenta numeri favorevoli ve n'era uno disgraziato) risvegliò com'è naturale, l'interesse del pubblico. I babilonesi si dettero massa a questo gioco. Chi non acquistava sorti era considerato un pusillanime, un dappoco. Col tempo, questo disprezzo crebbe a includere non solo quelli che non giocavano, ma anche quelli che avendo giocato, e perduto, si rassegnavano alla conciliazione dell'ammenda. La Compagnia (così si cominciò allora a chiamarla) dovette vegliare sugli interessi dei vincitori, che non potevano riscuotere i premi se mancava nelle casse l'importo quasi totale delle multe. S'intentarono processi ai perditori che non pagavano: il giudice li condannava al pagamento della multa e delle spese, o a qualche giorno di carcere. Tutti, pur di defraudare la Compagnia, optarono per il carcere. Da questa bravata di alcuni nacque l'onnipotenza della Compagnia - il suo valore ecclesiastico, metafisico.

In poco tempo, i bollettini di sorteggio finirono per omettere la lista delle multe e si limitarono a elencare i giorni di prigione relativi a ciascun numero avverso. Questo laconismo, che passò allora quasi inavvertito, fu di importanza capitale. Fu la prima apparizione nella lotteria di elementi non pecuniari. Il successo fu grande. Su insistenza dei giocatori, la Compagnia si vide costretta ad accrescere la proporzione dei numeri avversi.

È noto che il popolo di Babilonia è molto devoto alla logica, e anche alla simmetria. Era illogico che i numeri fausti si computassero in tonde monete e gli infausti in giorni e notti di carcere. Alcuni moralisti osservarono il possesso di monete non sempre determinare la felicità; ed esservi, forse, forme più dirette della fortuna.

Un'altra inquietudine s'allargava nei quartieri poveri. I membri dei collegio sacerdotale moltiplicavano le poste e godevano di tutte le vicissitudini del terrore e della speranza; i poveri (con invidia ragionevole, e comunque inevitabile) si vedevano esclusi da questo va e vieni, notoriamente delizioso. Il giusto desiderio che tutti, poveri e ricchi, partecipassero egualmente alla lotteria, promosse un'agitazione indignata, la cui memoria non s'è cancellata ancora. Alcuni ostinati non compresero (o finsero di non comprendere) che si trattava di un ordine nuovo, di una necessaria tappa storica... Uno schiavo rubò un biglietto cremisi, che nel sorteggio lo designò per la bruciatura della lingua. Il codice prevedeva la stessa pena per chi rubava un biglietto. Alcuni babilonesi argomentarono che colui meritava il ferro rovente nella sua qualità di ladro; altri, magnanimi, che il carnefice doveva applicarglielo poiché così aveva voluto il caso. Vi furono tumulti, effusioni deplorevoli di sangue; ma la gente di Babilonia impose finalmente la sua volontà contro l'opposizione dei ricchi. Il popolo conseguì appieno i suoi fini generosi. In primo luogo, ottenne il trasferimento alla Compagnia di tutti i poteri pubblici. (Questa unificazione era necessaria, data la vastità e complessità delle nuove operazioni.) In secondo luogo, ottenne che la lotteria fosse segreta, gratuita e universale. Fu abolita la vendita mercenaria delle sorti. Iniziato ai misteri di Bel, ogni uomo libero partecipava automaticamente ai sacri sorteggi che si facevano nei labirinti del dio ogni sessanta notti, e che determinavano il suo destino fino al nuovo esercizio. Le conseguenze erano incalcolabili. Una giocata fortunata poteva bastare per entrare nel concilio dei maghi, o per mandare in prigione un nemico (notorio o intimo), o per incontrare, nella calma oscurità della propria stanza, la donna che comincia a inquietarci e che non speriamo di rivedere; una giocata avversa, invece, poteva significare una mutilazione, l'infamia, la morte. A volte un fatto solo - il taverniere assassinato da C, l'apoteosi misteriosa di B - era la soluzione geniale di trenta o quaranta sorti. Combinare le giocate era difficile; ma bisogna ricordare che gli uomini della Compagnia erano (e sono) onnipotenti e astuti. Molte volte, il sapere di certe felicità che erano semplice fattura del caso, avrebbe potuto diminuirne l'efficacia; per evitare quest'inconveniente, gli agenti della Compagnia usavano di suggestioni e della magia. I loro passi, i loro maneggi, erano segreti. Per scoprire le intime speranze e gli intimi terrori di ciascuno, disponevano di astrologi e di spie. V'erano certi leoni di pietra, v'era una latrina segreta chiamata Qaphqa, v'erano certe crepe in un acquedotto polveroso che, secondo l'opinione generale, arrivano alla Compagnia; gente maligna o benevola depositava delazioni in questi luoghi. Un archivio alfabetico raccoglieva queste informazioni di varia attendibilità.

Incredibilmente, non mancarono mormorazioni. La Compagnia, con la sua abituale discrezione, non replicò direttamente. Preferì sgorbiare sulle rovine d'una fabbrica di maschere un argomento breve, che ora figura nelle scritture sacre. Questo scritto dottrinale osservava che la lotteria è un'interpolazione del caso nell'ordine del mondo, e che accettare errori non è contraddire al caso, ma corroborarlo. Osservava pure che quei leoni e quel recipiente sacro, anche se non sconfessati dalla Compagnia (che non rinunciava al diritto di consultarli), funzionavano senza garanzia ufficiale.

Questa dichiarazione calmò le inquietudini del pubblico. Produsse anche altri effetti, forse non previsti dall'autore. Modificò profondamente lo spirito e le operazioni della Compagnia. Non mi resta che poco tempo; m'avvertono che la nave sta per salpare; ma cercherò di spiegarmi.

Per inverosimile che appaia, nessuno aveva ancora tentato una teoria generale dei giochi. Il babilonese è poco speculativo. Accetta i dettami del caso, gli affida la propria vita, la propria speranza, il proprio terrore, ma non gli accade di investigare le sue leggi labirintiche, le sfere giratorie che le rivelano. Tuttavia, la dichiarazione ufficiosa cui ho accennato ispirò molte discussioni di carattere giuridico-matematico, e da una di esse nacque la proposta seguente: Se la lotteria è una intensificazione del caso, una periodica infusione del caos nel cosmo, non converrebbe fare intervenire il caso in tutte le fasi dei gioco, e non in una sola? Non è ridicolo che il caso detti la morte di qualcuno e che le circostanze di questa morte - pubblica o segreta, immediata o ritardata d'un secolo - non siano anch'esse soggette al caso?. Questi scrupoli, troppo giusti, provocarono finalmente una sostanziale riforma, le cui complessità (aggravate da un esercizio di secoli) non s'intendono che da pochi specialisti, ma che cercherò tuttavia di riassumere, anche se in modo simbolico.

Immaginiamo un primo sorteggio, che detti la morte d'un uomo. Per l'esecuzione, si procede a un altro sorteggio, che proporrà - diciamo - nove esecutori possibili. Di questi esecutori, quattro potranno passare a un terzo sorteggio che dirà il nome del carnefice, due potranno sostituire all'ordine avverso un ordine felice (diciamo, la scoperta d'un tesoro), un altro potrà rendere la morte più acerba (facendola infame, o arricchendola di torture), altri potranno rifiutarsi di darla... Tale è lo schema simbolico. In realtà il numero dei sorteggi è infinito. Nessuna decisione è finale, tutte si ramificano in altre. Gli ignoranti suppongono che infiniti sorteggi richiedano un tempo infinito; basta, in realtà, che il tempo sia infinitamente divisibile, come insegna la famosa parabola della Gara con la Tartaruga. Questo tipo di infinitezza si addice ammirevolmente ai sinuosi numi del Caso e all'Archetipo Celeste della Lotteria, adorato dai platonici... Una qualche eco deforme dei nostri riti sembra essere ricaduta nel Tevere: Elio Lampridio, nella Vita di Antonino Eliogabalo, riferisce che questo imperatore scriveva in conchiglie le sorti che destinava ai convitati, di modo che uno riceveva dieci libbre d'oro, un altro dieci mosche, dieci marmotte, dieci orsi. Conviene ricordare che Eliogabalo fu educato in Asia Minore, tra i sacerdoti del dio eponimo.

Si hanno anche sorteggi impersonali, di proposito indefinito: uno decreta che si scagli nelle acque dell'Eufrate uno zaffiro di Taprobana; un altro, che dal tetto d'una torre si sciolga un uccello; un altro, che ogni secolo si tolga (o si aggiunga) un granello di rena ai grani innumerevoli della spiaggia. Le conseguenze, a volte, sono tremende. Sotto l'influsso benefico della Compagnia, i nostri costumi sono saturi di caso. L'acquirente d'una dozzina di anfore di vino damasceno non si meraviglia se una di esse contiene un talismano o una vipera; lo scrivano che redige un contratto non lascia quasi mai di introdurvi qualche dato erroneo; io stesso, in questa affrettata esposizione, ho falsato qualche splendore, qualche atrocità. E anche, forse, qualche misteriosa monotonia... I nostri storici, che sono i più perspicaci dell'orbe, hanno inventato un metodo per correggere il caso; si dice che le operazioni di questo metodo siano (in generale) fededigne; sebbene, naturalmente, non si divulghino senza una certa dose di inganno. Peraltro, nulla è più contaminato di finzione che la storia della Compagnia... Un documento paleografico, esumato in un tempio, può essere opera di un sorteggio di ieri, o d'un sorteggio di un secolo fa. Non si pubblica libro senza qualche divergenza tra ciascuno degli esemplari; gli scribi prestano giuramento segreto di omettere, di interpolare, di variare. Anche si esercita la menzogna indiretta.

La Compagnia, con modestia divina, evita ogni pubblicità. I suoi agenti, com'è naturale, sono segreti; i comandi ch'essa impartisce incessantemente (forse infinitamente) non differiscono da quelli che s'arrogano gli impostori. D'altra parte, chi potrà vantarsi d'essere un mero impostore? L'ubriaco che improvvisa un'ingiunzione assurda, il sognatore che si sveglia di colpo e strozza con le sue mani la donna che gli dorme a fianco, non c'è il caso che eseguano una decisione segreta della Compagnia? Questo funzionamento silenzioso, comparabile a quello di Dio, provoca ogni sorta di congetture. Una, abominevolmente, insinua che già da secoli la Compagnia ha cessato d'esistere, e che il sacro disordine delle nostre vite è puramente ereditario, tradizionale; un'altra la giudica eterna e insegna che durerà fino all'ultima notte, quando l'ultimo dio annullerà il mondo. Un'altra afferma che la Compagnia è onnipotente, ma che solo influisce sulle cose minuscole: sul grido d'un uccello, su una sfumatura nel colore della ruggine e della polvere, sui sogni incerti dell'alba. Un'altra, per bocca di eresiarchi mascherati, che non è mai esistita e mai esisterà. Un'altra, non meno vile, ragiona che è indifferente affermare o negare la realtà della tenebrosa corporazione, poiché Babilonia, essa stessa, non è altro che un infinito gioco d'azzardo.